LA ROMANITA' DI GIGI PROIETTI AVEVA UN RESPIRO UNIVERSALE
Huffington Post - 10 luglio 2021
Gigi Proietti se n’è andato l’anno scorso lasciando nel vasto pubblico un lieto ricordo. Il ricordo di un artista ricco di talento e di umanità. Erede della sublime lezione di Ettore
Petrolini, riuscì ad aggiornarla con intelligenza ed economia espressiva in quella pietra miliare del nostro teatro che fu A me gli occhi, please. Debuttato nel 1976, lo spettacolo
fu riproposto per decenni.
Il critico Italo Moscati ci dà ora l’occasione di ripensarne la figura con un intelligente libro appena pubblicato da Castelvecchi: Gigi Proietti. Non mi trucco e so’ Mandrake. Non
si tratta di una biografia agiografica, ma di un agile racconto critico dal taglio quasi cinematografico - Moscati del resto è anche sceneggiatore - che della traiettoria di Proietti
focalizza alcune scene significative. Scene che documentano i momenti trionfali, o gli snodi esistenziali, o i nodi problematici che il mattatore non riuscì del tutto a sciogliere. Delle star
di cui parla nei suoi saggi Moscati cerca di indagare i retroscena: che cosa si cela dietro le loro maschere mitiche? Ne vengono fuori ritratti rispettosi ma sbalzati.
Moscati rievoca gli incontri importanti di Proietti: con Giancarlo Cobelli, con Antonio Calenda, con Roberto Lerici, privilegiando il faccia a faccia con Carmelo Bene. Nel 1974, con la regia
del maestro salentino, portarono in scena insieme La cena delle beffe di Sem Benelli: «I due attori Carmelo e Gigi erano impegnati in una gara di fascinazione reciproca, una
fascinazione competitiva. Certamente Carmelo dominava la situazione delle prove: un teatro ardito, specialissimo, grottesco; Gigi gli proponeva il suo teatro appassionato, leggero,
spiritoso». Per Italo Moscati l’incontro/scontro con Carmelo Bene fece da spartiacque: negli anni successivi Proietti si allontanò dal teatro cosiddetto di ricerca (che allora davvero
ricercava, che allora davvero trovava) per diventare un divo nazionalpopolare.
Tra teatro, cinema e televisione, l’attività di Proietti fu intensissima. A me resta però l’impressione di una certa mancanza di coraggio, come se non osasse percorrere fino in fondo il
sentiero del suo non comune talento. Molte sue scelte artistiche dell’età matura, specialmente quelle cinematografiche e televisive, mi sembrano troppo facili. La stessa idea di fare
edificare a Roma, dentro Villa Borghese, un Globe Theatre scespiriano ha qualcosa di provinciale: la romanità di Gigi Proietti, quella sì, aveva un respiro universale.