LA REALTA' NELLA BIGLIA DI VETRO DI STEFANO D'ARRIGO
Huffington Post - 3 luglio 2021
Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo è uno dei romanzi capitali del novecento italiano e con passo lento ma sicuro va conquistando lo spazio che gli spetta. I versi giovanili di
Codice siciliano e il secondo romanzo Cima delle nobildonne non aggiungono molto alla statura di D’Arrigo e tuttavia meritano la lettura.
Onore al curatore Walter Pedullà e alla casa editrice Rizzoli per avere promosso in questi anni la diffusione delle opere dello scrittore siciliano: Cima delle nobildonne è stato
appena ripubblicato in edizione economica. Sarebbe peraltro auspicabile vedere raccolti in un unico volume tutti i saggi che Pedullà ha dedicato all’amico.
Essendo D’Arrigo non uno scrittore sperimentale da laboratorio accademico ma un irrequieto sperimentatore autentico, Cima delle nobildonne risulta diversissimo da Horcynus
Orca. D’Arrigo sperimenta sulla durata: se nel suo capolavoro i pochi fatti della trama venivano dilatati in un fluire narrativo mostruoso quanto l’orca, nel secondo romanzo i tanti
accadimenti vengono condensati e deliberatamente opacizzati. Se nel primo romanzo lo scrittore lavorava sul mito, operando un processo di mitizzazione di ogni elemento della realtà, nel
secondo punta sulla fascinazione.
Lo scrittore è stregato dalla placenta e dai suoi tanti possibili significati: «“Lessi la prima volta Hatshepsut, nome sinonimo, e la sua traduzione letterale, 'Colei che va davanti alle
nobili', non mi fece un grande effetto. Lessi poi la sua traduzione enfatizzata, 'Cima delle nobildonne' appunto, e questa, devo dire, leggerla e trasferirla alla placenta per me fu tuttuno.
Restai sbalordito per come si attagliava a lei, per come esprimeva ai miei occhi tutta la nobiltà che io pensavo di lei».
Romanzo della placenta e della metamorfosi chirurgica (inizia con un’operazione per trasformare in donna un bellissimo ermafrodito), Cima delle nobildonne affascina grazie alla sua
reticenza narrativa, grazie alle sue cifrate zone d’ombra. Scrive Pedullà nell’introduzione: «Il romanzo finisce dove è cominciato, nella stessa clinica. La struttura resta circolare, ma il
cerchio è fatto a pezzi da giustapporre senza sutura, come nei fumetti».
Stefano D’Arrigo racconta la nostra epoca scientifica senza la lucidità di Italo Calvino e senza la follia di Giuseppe Bonaviri: osserva la realtà come se fosse racchiusa in una biglia di
vetro che a suo capriccio capovolge per irretire e inquietare il lettore.