"L'ALTRA FACCIA DEL VENTO",
OVVERO QUANDO ORSON WELLES OLTREPASSA IL CINEMA
Huffington Post - 9 maggio 2021
Per anni e anni Orson Welles inseguì il sogno di ultimare il film L’altra faccia del vento (The Other Side of the Wind), ma il suo furore autodistruttivo e le avverse
circostanze produttive glielo impedirono. Ne valeva la pena? Sì. Orson Welles morì nel 1985, grazie a Netflix nel 2018 abbiamo potuto scoprire questo capolavoro postumo.
A conferma di quanto le odierne acque estetiche siano torbide, a conferma di quanto risulti difficile definire il tasso di contemporaneità di un’opera, L’altra faccia del
vento – girato negli anni settanta, montato negli anni ottanta, completato da Peter Bogdanovich negli anni dieci – mi sembra il film più attuale tra quelli che ho visto
recentemente.
L’altra faccia del vento è il ritratto di un vecchio regista americano in declino, che si batte per ultimare il film che potrebbe rilanciarlo. Si fatica un poco a seguire il filo del
racconto, ma è una fatica benedetta: sin dal primo lungometraggio Quarto potere Welles predilige le macchine narrative complesse, del resto chi l’ha detto che l’arte cinematografica
debba essere semplice?
L’altra faccia del vento oltrepassa il cinema: è un film dell’era del video, la nostra era. Analogamente a Jean-Luc Godard, Orson Welles miscela gli stili di ripresa, dialogando con
il documentario, con la televisione, con il videoclip, con la videoarte. Il montaggio è rapidissimo, sporco, vertiginoso. Gli attori sono magnifici, spiccano John Huston, Oja Kodar, Lilli
Palmer.
La scena suprema del film è quella in cui la Kodar ha un rapporto sessuale con un ragazzo in macchina. La sensualità di Oja è sconvolgente, nel buio squarciato dai fari delle altre automobili
l’attrice sembra una sacerdotessa nera, una prostituta sacra. Raramente l’arte ha rappresentato il sesso in modo così morboso e insieme così spirituale.
Rispetto a L’altra faccia del vento, The Irishman di Martin Scorsese (produzione Netflix del 2019) sembra un film dell’altro ieri. Il film di Welles è euforico e spiazzante,
quello di Scorsese è malinconico e con lo sguardo rivolto verso il passato. The Irishman è vecchio come i suoi nuovi trucchi tecnologici per ringiovanire gli attori, risultando una
compiaciuta autocelebrazione del grande cinema scorsesiano. Gli occhi di Orson Welles invece perlustrano il futuro.