IL MANIFESTO PER UN NUOVO TEATRO DI PIER PAOLO PASOLINI
Ridotto - Gennaio / Aprile 2025
I manifesti, i proclami, le dichiarazioni di poetica in fondo lasciano il tempo che trovano: solo quanto accade sul palcoscenico o sulla pagina è davvero vivo, solo i risultati artistici
davvero contano. In qualche caso le teorie finiscono addirittura per soffocare le opere, appesantendole con significati estranei alla dimensione artistica o stritolandole con definizioni
troppo stringenti.
Al contrario, leggere il Manifesto per un nuovo teatro di Pier Paolo Pasolini mi sembra un atto proficuo, giacché la dimensione teorica – o per meglio dire: ideologica - è sempre
presente nelle sue opere drammaturgiche, letterarie, cinematografiche (talora risultando preponderante). Apparso nel 1968 sulla rivista Nuovi Argomenti, il manifesto ci aiuta a capire le
strategie espressive adottate da Pasolini per conseguire quella sacra rozzezza che caratterizza tragedie come Affabulazione o come Orgia, opere che hanno riscosso e
riscuotono una notevole fortuna sulle nostre scene.
Il nuovo teatro teorizzato da Pasolini è un «teatro di parola». Esso si vive come un rito culturale, proponendo testi «fondati sulla parola (magari poetica) e su temi che potrebbero essere
tipici di una conferenza, di un comizio ideale o di un dibattito scientifico - il teatro di parola nasce ed opera totalmente nell’ambito della cultura». Avversando la dimensione mondana e
quella spettacolare, il teatro di parola vuole riallacciarsi alla drammaturgia della democrazia ateniese.
Nel manifesto lo scrittore friulano considera chiusa la rivoluzione contro il teatro tradizionale operata da Bertolt Brecht. Egli prende le distanze sia dal teatro accademico che da quello
avanguardistico (brillantemente definiti come teatro borghese e «teatro borghese antiborghese»), auspicando una drammaturgia rivolta ai gruppi avanzati della borghesia, cioè «le poche
migliaia di intellettuali di ogni città il cui interesse culturale sia magari ingenuo, provinciale, ma reale».
Secondo Pasolini il teatro di parola è «il solo che possa raggiungere, non per partito preso o retorica, ma realisticamente, la classe operaia. Essa è infatti unita da un rapporto diretto con
gli intellettuali avanzati. È questa una nozione tradizionale e ineliminabile dell’ideologia marxista e su cui sia gli eretici che gli ortodossi non possono non essere d’accordo, come su un
fatto naturale». La speranza politica di Pier Paolo Pasolini, a conti fatti, si è rivelata infondata: il nuovo teatro non ha trionfato e ancora oggi l’istituzione teatrale continua a
rivolgersi a un pubblico quasi esclusivamente borghese e piccolo borghese, mentre i ceti popolari – nel disinteresse della classe politica e degli intellettuali di sinistra – a teatro
continuano a non andarci. E non è forse un caso se poi, sentendosi abbandonati, nelle urne votano per le destre populiste.