ENNIO FLAIANO, UN AFFASCINANTE ROMPICAPO
Huffington Post - 19 dicembre 2020
Rileggo Ennio Flaiano con piacere, ma mi assale il dubbio di comprenderlo sempre meno. Adelphi ha ripubblicato il romanzo Tempo di uccidere con una impeccabile nota al testo di Anna
Longoni, eppure Flaiano resta un affascinante rompicapo. Le opere dello scrittore pescarese brulicano di punti oscuri e quasi recalcitrano all’interpretazione. Del resto, per tutta la vita,
Flaiano fu in fuga dal proprio talento e dalla propria compiutezza. La misura classica della sua scrittura trae in inganno: narrative o teatrali, diaristiche o giornalistiche, le pagine di
Flaiano hanno un sostrato notturno, enigmatico.
Dietro la sua aria sorniona, lo scrittore celava acuminati artigli che scorticavano le apparenze e le ipocrisie della società in cui viveva. Dietro la maschera dei suoi spessi occhiali,
celava il terrore di essere acchiappato. La figura di Flaiano va indagata come un giallo. Così fece qualche anno fa il regista Nino Bizzarri nel bellissimo documentario L’uomo
segreto, riuscendo a scovare il Flaiano più vero tra le pieghe del suo intimo dolore.
Tempo di uccidere, pubblicato da Longanesi nel 1947, è ambientato nel fetore della colonizzazione abissina voluta da Benito Mussolini. L’atmosfera ricorda Joseph Conrad, ma senza
tracce di esotismo: l’Africa di Flaiano non è quella convenzionale «con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi», bensì un’Africa mentale.
La storia è narrata in prima persona dal protagonista, un soldato italiano che ferisce accidentalmente la bella indigena con cui ha avuto un rapporto sessuale, per pietà e per vigliaccheria
la finisce con un colpo di pistola, scopre che la vittima era lebbrosa, teme di essersi contagiato, teme di venire denunciato… seguono accadimenti avventurosi e sordidi che sembrano
febbrilmente sognati.
Il protagonista è un pusillanime, un povero di spirito, dunque il romanzo si dispiega come un esame di coscienza mancato («L’aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile, ma
non per le ragioni che me l’avevano suggerito. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia»). Flaiano allude alla insufficiente autocritica della società italiana rispetto
al fascismo e al suo delirio imperiale.
Il fascino del romanzo sta nell’ambiguità: nel dormiveglia morale del protagonista, in certe sue illuminazioni successivamente ritrattate, nel suo terrore di scoprire se stesso. Lo stesso
terrore che angosciava Ennio Flaiano, il quale con ostinazione cercò di buttarsi via, ma lasciò un corpus letterario disomogeneo e magmatico nel quale non c’è niente da buttare.